L'Aquila com'era.
Nel caos delle macerie, degli aiuti, della desolazione ogni tanto arriva una notizia. Portata da un conoscente, da una sms o da una telefonata. L’amico, l’ex compagno di classe, il cugino del vicino e così via. Una lista, quella di coloro che non ci sono più, che si aggiorna via via. E quelli che hanno perso tutto, casa, lavoro, auto ti dicono “Siamo fortunati”.
Le scosse continuano. Il ricordo di quella interminabile non li fa dormire. Le case non sono più sicure. Le tende non sono riscaldate. Il terreno non è un giaciglio. Eppure non se ne vogliono andare.
La protezione civile li invita a raggiungere gli hotel sulla riviera disposti ad accoglierli. I parenti chiamano per convincerli a raggiungerli in posti più sicuri. Ma la risposta è sempre la stessa. Non possiamo andar via. Non possiamo lasciare casa nostra.
Così le tende per le sagre estive sono state montate nei campi sportivi. Le cucine sono quelle da campo. C’è anche chi è riuscito a portare una televisione per seguire le notizie. Perché chi c’è dentro ne sa meno di chi è lontano continenti. I bambini continuano a giocare intorno. Gli adulti non hanno neanche la forza di parlare. Lo sguardo vuoto. E quando chiedi cosa può servire, come si può aiutare ti rispondono solo. Bisogna tirare fuori tutti. Poi per il resto si vedrà. Eppure non se ne vogliono andare.