Testo del mio TedX di Novara
Alessio, mio figlio, ha 11 anni. Ha giocato a basket per 5 anni poi quest’anno ha deciso di cambiare sport e ha scelto di iscriversi a pallanuoto. Uno sport certo non semplice e immediato per lui che non aveva mai giocato prima con una palla in acqua. Proprio per questo quando si è iscritto ho pensato chissà quando riuscirà a giocare una partita? La realtà ha battuto ogni mia previsione e a un mese dall’inizio degli allenamenti Alessio ha già giocato un’amichevole.
Questo è il video di un allenamento. Alessio è quello con la palla qui sul fondo. Guarda i compagni e cerca di capire cosa fare. Poi l’aiuto allenatore a bordo campo interviene incitandolo in modo animato ad approfittare del corridoio che ha davanti a sé per arrivare in porta e tirare. Alessio reagisce distinto prende la palla nuota verso la porta, tira e segna.
Ci sono due momenti fondamentali in questo video che hanno cambiato quello che Alessio ha fatto di quella palla e quello che farà nelle prossime partite. Il primo momento è quello dell’incitamento appassionato dell’aiuto allenatore che gli grida di andare avanti e poi di tirare. Un incitamento che vale un gol per la squadra di Alessio.
Il secondo momento, che ha il potere di cambiare come Alessio giocherà nelle prossime partite è quando l’aiuto allenatore si abbassa a battere un cinque per festeggiarlo. E con lui la squadra esulta.
Questo non è un caso isolato, perché il primo allenatore da bordo vasca più volte ha gridato ad Alessio durante le partite le stesse parole. E una su tutte: TIRA. E un giorno dopo un’amichevole gli ha messo una mano sulla spalla e gli ha detto: ci devi provare, altrimenti non saprai mai se ci puoi riuscire. Quando prendi la palla davanti alla porta, tira.
Gli allenatori, quelli bravi, fanno proprio questo. Manuela Zanchi, oro alle Olimpiadi 2004 di pallanuoto e ora allenatrice, dice una cosa semplice: Quando decido di far entrare uno dei miei ragazzi in vasca, lo guardo negli occhi e gli dico “Io credo in te”. Io credo in te è quasi una formula magica, che riesce davvero a cambiare le situazioni.
Cosa c’entra questo con lo showing up delle donne? La percentuale di bambine che fanno sport di squadra, rispetto agli sport individuali, è ancora esigua in Italia. Per non parlare poi della fascia di età che va dall’adolescenza ai vent’anni, che vede un abbandono verticale dello Sport da parte delle ragazze.
Se guardiamo i numeri, sei bambini su 10 fra i 3 e i 10 anni fa uno sport di squadra. Di contro 5 bambine su dieci fanno sport individuali. Per lo più danza e ginnastica artistica.
Perché è importante che le bambine imparino a correre dietro un pallone? Anche negli sport individuali l’allenatore incita, sostiene e motiva. Qual è quindi la differenza? La differenza sta proprio qui: nella danza e nella ginnastica artistica si è incitati a raggiungere la perfezione del gesto, del movimento, dell’espressione. Negli sport con la palla si impara a provarci.
Una differenza da poco? No, se andiamo a vedere cosa succede crescendo. Gli studi ci dimostrano come gli uomini ottengano promozioni e aumenti sulle loro prospettive di crescita. Le donne, più spesso, si impegnano nel loro lavoro perché ritengono che facendo del loro meglio prima o poi saranno premiate. E quelle di loro che ottengono promozioni e aumento, ci riescono per i risultati raggiunti, non per le prospettive future che possono avere. Certo, questo quando ci riescono!
Un esempio concreto di questo diverso atteggiamento: in Banca d’Italia i test del concorso prevedevano che le risposte non date contassero quanto le risposte sbagliate. Da un’indagine fatta internamente si accorsero che questo favoriva gli uomini. Di fronte a una domanda di cui non si conosce la risposta, gli uomini si buttano e possono correre il rischio di azzeccarci. Le donne, nell’incertezza, non rispondono. In Banca d’Italia hanno deciso di cambiare i test per ovviare al problema.
Stessa cosa accade quando c’è da candidarsi a un lavoro, a una promozione, a un ruolo. Le donne non si fanno avanti se non hanno tutti i requisiti richiesti. Agli uomini basta averne un cinquanta per cento.
Se non fosse così, sarebbe difficile spiegarsi come ci sia un abisso tra i risultati ottenuti nei corsi di studio e quelli poi sul lavoro.
Quasi 8 diplomate su 10 prosegue gli studi, mentre tra i ragazzi solo sei su dieci. E anche all’università i risultati delle donne continuano a essere migliori sia per quanto riguarda la regolarità negli studi sia sul piano dei voti. La quota di donne che si laureano in corso è più alta di quella dei compagni di studi. Non solo. Il voto medio di laurea delle dottoresse, poi, è più alto (103,4) di quello dei dottori (101,3).
Eppure il mercato del lavoro premia gli uomini.
Tra i laureati magistrali biennali, a cinque anni dal conseguimento del titolo, il tasso di occupazione femminile è di 8 su 10, mentre quello maschile è di 9 su 10. E solo 52 donne su 100 hanno un contratto a tempo indeterminato, a fronte del 61 per cento degli uomini.
Per non parlare poi del gap salariale. A cinque anni dalla laurea magistrale biennale, gli uomini guadagnano mediamente il 19% in più delle donne: 1.637 euro mensili contro 1.375. Certo può dipendere anche dai diversi percorsi professionali intrapresi. Tuttavia, anche a parità di condizioni, lo stipendio maschile risulta comunque più alto di 159 euro netti al mese rispetto a quello femminile. Inoltre, a cinque anni dalla laurea solo il 47 per cento delle donne svolge un lavoro a elevata specializzazione, contro il 56 per cento degli uomini.
E neanche a dirlo le più penalizzate sono le laureate con figli. Perché lì alla tensione verso la perfezione di unisce il senso di inadeguatezza e il senso di colpa per non potersi impegnare in modo totalizzante nel lavoro.
Un senso di inadeguatezza che fa sì che le donne non alzino la mano. E vale nelle imprese come nella politica. Ai vertici delle aziende italiane le donne sono solo una manciata. E si può dire lo stesso in politica. Per la segreteria del Partito Democratico sono in corsa sette uomini e nemmeno una donna. Nessuna che ha alzato la mano e ha detto sono la persona giusta.
A me succede lo stesso: quando faccio un’intervista a un esperto, il giorno dopo ricevo almeno un paio di mail o messaggi di uomini che si accreditano per future interviste e il sotto testo è: potevo farla anch’io, anch’io ho le competenze per essere un esperto su questo tema. Mentre invece non ricevo mai messaggi di donne che si fanno avanti.
• Non credono di avere le competenze?
• Non hanno tempo per pensare alla comunicazione perché lavorano sodo?
• Oppure pensano che lavorando bene saranno i giornalisti ad andarle a scovare?
Fatto sta che sui giornali gli esperti sono quasi sempre uomini e non può essere tutta colpa dei giornalisti.
Ci sono però dei modelli femminili che non si tirano indietro. Questa nella foto è Sara Gama, capitana della Juventus e della Nazionale femminile di calcio. E’ stata invitata a tenere un discorso al Quirinale in occasione dei festeggiamenti per i 120 anni della Figc e nonostante l’evidente emozione, non le ha mandate a dire. Ha detto che la storia delle donne nel calcio è molto recente, che hanno bisogno di occasioni, investimenti, sostegno perché le donne nello sport possano avere lo stesso sviluppo degli uomini. E magari aspirare al professionismo. Perché in Italia le sportive, tutte, da Sara Gama a Federica Pellegrini, non sono professioniste, sono tutte dilettanti. E Sara Gama ha rivendicato una strada non più evitabile, dimostrando doti da capitana non solo in campo ma anche di fronte alle istituzioni. Ha rappresentato in quel discorso tutte le giovani che aspirano a una professione nello sport. E non si è tirata indietro. Chissà quante volte si è sentita gridare da bordo campo: TIRA.
All’inizio del mio intervento vi ho mostrato mio figlio Alessio. Questa nella foto è mia figlia Alice. Aveva meno di due anni, veniva al campo da basket, prendeva la palla in mano e faticava anche solo a stare in piedi con un peso simile. Stava lì a guardare il canestro e lo sfidava. E’ cresciuta dicendo di voler fare basket e quest’anno è la più giovane iscritta della sua società sportiva.
Ora tira a canestro e lo centra. E ha chi le grida: TIRA. E quando cresci con qualcuno che da bordo campo ti grida tira, prima o poi senti che inizia a risuonarti dentro e riesci a dirtelo da sola. Mi piacerebbe che pensassimo, quindi, a gridare “Tira” a tutte le bambine e le giovani con cui abbiamo a che fare.
Ma soprattutto mi piacerebbe che ci ricordassimo Di quella bambina con il pallone enorme che fissa il canestro e lo sfida che ognuna di noi ha dentro di sé.
E quando sarà il momento che ognuna di noi sappia gridarle forte: