Smart schooling, lasciamo che i ragazzi se la cavino da soli

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Giorni strani, fatti di ritmi saltati e incertezze. Ore da riorganizzare, lavoro in remoto e bambini e ragazzi a casa. Inutile negarsi che noi adulti abbiamo avuto un momento di spaesamento in questa riorganizzazione repentina e improvvisa nelle nostre vite. In molti si sono trovati a sperimentare uno smart working mai visto prima, con mezzi spesso di fortuna o di emergenza.

Per i bambini e i ragazzi è stato diverso. La prima reazione è stata una gioia infinita per questo dono inaspettato di tempo liberato. Liberato dalla scuola e dai ritmi di compiti-verifiche-interrogazioni, liberato dagli allenamenti sportivi, dalle partite e dai saggi, liberato da lezione di inglese e da quella di pianoforte. Intere giornate da inventare secondo i propri desideri.

Cosi, non potendo andare in oratorio, nei centri sportivi, nei luoghi di aggregazione, i ragazzi si sono riversati nei cortili e per le strade. Sotto casa mia i primi giorni il campo da calcio era diviso a metà: da una parte i ragazzi delle superiori dall’altro quelli delle elementari. Al campo da basket i ragazzini delle medie e al parco giochi quelli della materna. Sembrava che una cornucopia di giovinezza avesse sparso figli ovunque.

L’euforia non è durata nel tempo, anche perché nel giro di poco le scuole si sono organizzate. Dalle elementari alle superiori i compiti, le lezioni da studiare e le interrogazioni sono arrivate con ogni mezzo: registro elettronico, gruppi WhatsApp, telegram, google classroom, mail. E a volte per la stessa classe i professori hanno scelto mezzi diversi in un moltiplicarsi di video-lezioni da ascoltare, questionari da riempire e rispedire, test online. È iniziato il tempo dello smart schooling.

Mio figlio, seconda media, questa mattina è chiuso in cameretta in collegamento con la prof. di italiano attraverso Google meet. Si sono “ritrovati” alle 9, hanno parlato un po’ di come stanno passando questi giorni, poi la prof. Si è presa un attimo per un caffè e ha detto loro “aprite i microfoni e parlate facendo il caos che fate in classe”, come a voler regalare loro un po’ di normalità anche se solo virtuale.

Mia figlia, prima elementare, ha un quaderno su cui scrive pensierini e legge il libro di Peter Pan. Anche per lei il registro elettronico ha bussato con una serie di compiti.

Due figli e due realtà. Ci sono famiglie in cui le situazioni sono le più disparate e le età più diverse. Che si sia in smart working o si vada a lavorare ci siamo però trovati tutti davanti a un bivio. Che faccio, lo aiuto?

Il programma non si è fermato. Sul registro elettronico appaiono nuovi argomenti (verbo dovere in inglese, gerundio in spagnolo, apparato digerente e teorema di Pitagora) e test da completare con scadenza, tanto che nelle mail appare l’allert: il test scade entro domani.

Il tempo liberato è diventato tempo da autogestirsi ma in base a impegni dettati da altri e i ragazzi restano attoniti di fronte a richieste multiple e differenziate. Sono certo più svegli di noi nell’adattarsi alle nuove tecnologie, ma resta il fatto che questa improvvisa responsabilizzazione nel dover fare da soli non sia facile da gestire.

E noi cosa dobbiamo fare? Quattro anni fa scrissi di essere contro il registro elettronico e i gruppi WhatsApp dei genitori come strumenti di controllo e di ingerenza nella vita scolastica dei ragazzi. A noi le nostre responsabilità e a loro le loro. Ora l’istinto, naturalmente, sarebbe quello di prendere in mano la situazione, controllare le indicazioni e dettare i tempi e i modi dello studio. Ma l’istinto non sempre ha ragione.

È una situazione straordinaria (intesa come fiori fall’ordinario) che sta insegnando a noi e alle aziende un nuovo modo di lavorare. Allora, forse, è il caso che serva anche alle scuole, ai professori e ai ragazzi per imparare modi nuovi di comunicazione, organizzazione e studio.

Certo non si può fare con i bambini delle elementari, ma dalle medie in poi che se la cambino loro a districarsi fra i mille messaggi che ricevono dai professori su piattaforme diverse, che siano loro a mettere la sveglia per non perdere l’appuntamento su Google meet, che siano loro a controllare la scadenza di un test e a rispettarla. Non perché come genitori non si voglia dare una mano, ma perché non sia per loro un’occasione persa per misurarsi, per provare la propria autonomia, per crescere.

Dall’altra parte la scuola saprà se sta facendo un buon lavoro nel crescere nuove generazioni di ragazzi in grado di affrontare le sfide della vita, ora nel loro piccolo e poi fra qualche anno in una dimensione più allargata.

E noi genitori, che ci ritroviamo con un pc in cucina a mettere insieme una call e appunti da ricordare a memoria perché lasciati in ufficio, o noi genitori che andiamo avanti e indietro dal lavori in una situazione di sospensione, oppure i nonni (welfare che regge nonostante tutto) che faticano a riempire le ore dei nipoti e ad arrivare a sera, non dovremmo sentirci in colpa per un compito non consegnato o un appuntamento mancato dal nostro ragazzo. Perché questo tempo della scuola è un tempo loro, non nostro. Perché questa è la loro vita, non la nostra. E non saranno 2 settimane di autogestione a rovinare il loro futuro. Anzi. Forse saranno quelle che riusciranno a renderlo migliori, rendendo loro migliori. Anche senza di noi.