“Le dimissioni in bianco sono uno scandalo”. “Al colloquio mi hanno chiesto se avevo intenzione di sposarmi e far figli”. “Non ho avuto la promozione perché avrei potuto avere un figlio”. “Non ho guadagnato il bonus perché sono andata in maternità un mese su dodici”. In questi anni ho raccolto lamentele di ogni tipo sulla discriminazione che le donne in età da figli subiscono quotidianamente sul posto di lavoro. E la richiesta è di maggior tutte le da parte della legge, maggiori iniziative a supporto della maternità da parte delle istituzioni e maggiore flessibilità da parte delle aziende. Poi domenica scorsa mi sono trovata al parchetto ad ascoltare mamma inorridite al pensiero che la maestra del nido 35enne stesse pensando di fare un figlio.
Dobbiamo assolutamente dirle di aspettare fine anno”. “Non può lasciare i bambini a metà anno e chissà chi la sostituirà”. “I bambini hanno bisogno di continuità, la conoscono dallo scorso anno”. “Assolutamente non se ne parla, domani mattina vado e le dico io che non è proprio il caso”. Esclamavano le mamme, mentre soffiavano il naso ai loro pargoli, li spingevano sulle altalene o li seguivano in triciclo. E a me è sembrato tutto davvero assurdo. Come può una mamma non capire la scelta della maternità da parte di un’altra donna? Ma soprattutto, se non possiamo capirlo noi, perché poi ci lamentiamo che non lo capiscano loro, gli uomini? Che differenza c’è fra una mamma che chiede alla maestra di aspettare la fine dell’anno e un manager che chiede alla dipendente di aspettare la chiusura di un deal o il lancio di un prodotto sul mercato o la quotazione in Borsa della società?
Il lunedì ho portato mia figlia a scuola e guardando negli occhi la maestra le ho detto che qualunque cosa decida di fare sono pienamente dalla sua parte. I nostri figli sopravviveranno. Perché questa è la sua vita e non c’è lavoro che meriti di essere messo prima.