Era il 4 aprile. Quel giorno si è chiuso per sempre l’obiettivo di Anja Niedringhaus. Era tedesca, aveva 49 anni, faceva la fotoreporter di guerra. E non è un esempio isolato. Le giornaliste che scelgono di lasciare le redazioni e andare in paesi in conflitto sono in continuo aumento. Noi in Italia ne ricordiamo poche: Lilli Gruber, Monica Maggioni. Eppure all’estero le corrispondenti di guerra per tv e giornali sono in crescita. Si prenda ad esempio il conflitto in Siria, uno dei più pericolosi: oltre 60 giornalisti sono stati uccisi nel Paese mediorientale da quando è scoppiata la guerra civile, più di tre anni fa, e numerosi sono stati anche i sequestri di reporter e fotogiornalisti da parte di gruppi estremisti. Eppure sempre più donne sono inviate in Siria dai principali organi d’informazione internazionali, dal “Washington Post” al “New York Times”, dal “Wall Street Journal” alla Cnn.
Certo non è una novità. Negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso Margaret Bourke-White, Virginia Cowles, Martha Gellhorn ed Helen Kirkpatrick seguirono i conflitti che infiammarono l’Europa. In tempi più recenti Oriana Fallaci e poi Christiane Amanpur si sono distinte sui fronti di mezzo mondo. Ma come sottolinea la “Columbia Journalism Review”, mai le donne avevano primeggiato in un settore così pericoloso come nell’attuale conflitto in Siria.
Secondo Liz Sly, responsabile dell’ufficio di corrispondenza del “Washington Post” a Beirut, le donne hanno ormai dimostrato da tempo di essere all’altezza e i giornali non si fanno più problemi a inviarle nelle zone di guerra più rischiose. Certo, i pericoli non mancano e spesso sono anche più insidiosi di quelli che può incontrare un reporter uomo, primo fra tutti quello degli abusi sessuali: un’inchiesta realizzata dall’International Women’s Media Foundation ha scoperto che su un campione di quasi 1.000 giornaliste, il 14% di esse è stata vittima di violenze. E proprio lo scorso anno The Atlantic dedicò ai pericoli per le donne giornaliste in territori di guerra un’inchiesta.
Per non parlare poi delle difficoltà di lavoro che si incontrano nei paesi musulmani più conservatori, dove non sempre gli uomini si lasciano intervistare da una donna. Di contro, il girare in strada velate può rappresentare talvolta un vantaggio per le giornaliste che non vogliono dare nell’occhio e passare inosservate. Certo è che anche l’ultima frontiera del giornalismo al maschile (dopo quella sportiva che vacilla da un po’) sta cedendo.