Se vai a un convegno e non ne esci con qualche domanda, forse era meglio usare il tempo in altro modo. E per fortuna al Festival dell’Economia di Trento capita spesso di uscire dai dibattiti con qualche questione irrisolta. Mi è capitato ieri dopo la lezione e il dibattito con l’economista Fabrizio Zilibotti, che ha esposto la sua teoria sul legame che intercorre tra disuguaglianze sociali e stili educativi nei diversi Paesi e a cascata delle conseguenze sociali future che questa scelta avrà.
La teoria del professore è semplice: la disuguaglianza di reddito e di status sociale influisce sullo stile della genitorialità. Dove il tasso di disuguaglianza è alto (come in Cina e Usa), i genitori tendono ad avere un atteggiamento intrusivo e a considerare più dei loro figli le conseguenze delle loro scelte nel futuro. Tendono così ad assumere uno stile educativo “autoritario” e a dare un’importanza molto elevata ai risultati scolastici. In genere, sottolinea Zilibotti, questi atteggiamenti si verificano più frequentemente nelle classi medio alte che tendono, pertanto, a riproporre ai figli lo stesso modello da loro percorso di ascesa sociale ed economica. Si crea così la tendenza alla riproduzione della classe dirigente, che limita la mobilità sociale del Paese.
Diversamente, nei Paesi dove la disuguaglianza è minima (Scandinavia), i genitori tendono più facilmente a optare per uno stile educativo “permissivo” lasciando che i figli scelgano in indipendenza il proprio percorso di studi e il futuro lavoro. In questo secondo caso è più facile che si creino gli spazi per la mobilità sociale.
Naturalmente questa è solo una sintesi della teoria di Zilibotti che potete approfondire leggendo il suo articolo. Mi interessano qui di più le domande che ha lasciato aperte il professore (che in quanto accademico non dà giudizi di valore ma fotografa solo la realtà). Domande che non sono solo le mie ma anche quelle di quanti sono intervenuti ieri nel dibattito dalla platea.
L’Italia, che ha un divario sociale crescente, tende a prediligere uno stile educativo più “intensivo” anche se non ai livelli americani e cinesi. Un genitore si trova, quindi, di fronte alla scelta: o decide di far correre ai propri figli la gara per l’affermazione sociale, il successo scolastico e poi lavorativo e il miglioramento economico rispetto alla famiglia di origine; oppure opta per un atteggiamento meno “autoritario” e lascia (pur seguendone il percorso) che i figli trovino la propria strada. In questo secondo caso con la consapevolezza che da adulti probabilmente si troveranno a giocare con regole del gioco che non conoscono, facendo quindi più fatica degli altri a trovare la propria via all’interno del contesto economico del Paese.
Faccio un esempio pratico: l’importanza dell’inglese per un’affermazione professionale è crescente. Le iscrizioni alle scuole internazionali (a partire dal nido!) si moltiplicano, così come le estati nei college britannici, le au pair lingua madre inglese, i corsi privati e così via. Fino a che punto è giusto preparare i figli al futuro che li aspetta? Stessa cosa si dica per i corsi di scacchi che partono dall’età prescolare o l’obiettivo di raggiungere la cintura nera di karate entro la fine delle elementari.
Un test fatto ai genitori (citato ieri da Zilibotti) consisteva nel mettere in ordine di importanza alcune skills che si intendeva far sviluppare ai propri figli come: immaginazione, indipendenza, etica del lavoro (intesa come focalizzazione al risultato). Il mio ordine è proprio quello in cui ho citato le tre abilità. E nel presentare il professore ieri ho mostrato questa foto: ho trovato così i miei figli fuori da un cantiere di una casa in costruzione. Stavano partendo per un viaggio spaziale dopo essersi costruiti l’astronave. Probabilmente non saranno mai manager, ma credo che possano fare un bel viaggio. E così stasera andiamo a caccia di lucciole, al posto di ripassare la tabellina dell’8!
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