L’Italia migliora di due posizioni nel Gender Gap Index globale, ma è un disastro nello spaccato che riguarda la partecipazione delle donne al mondo del lavoro e alle pari opportunità in temi economici. Se, infatti, nell’indice complessivo siamo al 69esimo posto su 142 paesi, in temi economici scendiamo al 114esimo posto dal 97esimo del 2013. Insomma, anche stavolta è difficile vedere il bicchiere mezzo pieno. A farci recuperare due posizioni è la presenza di donne in Parlamento e la parità nell’esecutivo di Matteo Renzi. Ma se si guarda al “paese reale” la situazione è in peggioramento.
Prendiamo ad esempio il tasso di disoccupazione. Nel secondo trimestre dell’anno (ultimo dato disponibile per l’Istat) la disoccupazione femminile in Italia era al 13,4% contro il 12,8% dello stesso periodo dell’anno prima e nel primo trimestre 2014 ha toccato addirittura il 14,5%. Fra l’altro al Sud siamo ben oltre il 21%. Si obietterà che con la crisi è aumentata la disoccupazione anche maschile, ma in Italia si partiva da dati occupazionali che fotografavano già un gran divario: nel 2012 gli uomini partivano dal 67% le donne dal 47% (quando gli obiettivi di Lisbona imponevano il raggiungimento del 60%). Oggi i primi viaggiano attorno al 64,8% e le donne attorno al 46,5%, con quasi venti punti di distacco. Non solo poco occupate, ma anche (e soprattutto) poco pagate. Il dato che emerge dall’analisi del World Economic Forum ci posiziona al 129esimo posto per gap salariale sui 142 paesi, a parità di occupazione.
Non basta, quindi, qualche nomina ai vertici delle società controllate dal ministero del Tesoro o l’applicazione della Legge Golfo-Mosca per le quote di genere nei cda. Le donne sono più visibili ai vertici, anche se ancora non hanno la gestione di un potere effettivo in qualità di amministratori delegati o di consiglieri esecutivi delle società (la maggior parte sono consiglieri indipendenti). E’ arrivato, quindi, il momento di intervenire dal basso perché la disoccupazione delle giovani donne al Sud non sia vicina al 50% e l’abbandono della professione da parte delle avvocate non arrivi al 25% dopo il primo figlio, ad esempio. Servono misure immediate, partendo da quelle a costo zero, che possano favorire l’occupazione femminile. E se mancano i soldi per investimenti in questo senso, forse è il caso che il governo crei dei tavoli di lavoro con le associazioni datoriali e con le imprese per trovare soluzioni alternative. Altrimenti le “nomine” restano solo operazioni di maquillage per guadagnare un paio di posizioni in classifiche fini a se stesse.