Urban Outfitters: quando gli azionisti bacchettano il management e la proprietà

UrbanNon c’è pace per le aziende che preferiscono non adeguarsi a certi cambiamenti. Dopo Glencore Xstrata è la catena di abbigliamento Urban Outfitter a guadagnare gli onori della cronaca. Nel primo caso era intervenuto Vince Cable, Secretary of State for Business, Innovation and Skills dal 2010 in Gran Bretagna, che contestava la giustificazione secondo la quale la società di materie prime non ha trovato donne adeguatamente qualificate per il proprio cda. Nel caso di Urban Outfitter la contestazione arriva da un gruppo di azionisti, che in occasione dell’assemblea dei soci di martedì scorso hanno votato una risoluzione per chiedere che nel board della società vengano nominate donne e rappresentanze delle minoranze per “meglio riflettere la diversity dei mercati in cui la catena opera”. Insomma, le bacchettate arrivano sia dalle authority sia dall’interno. Ma come fanno certe aziende, dati alla mano, a non capire che la diversity è un valore?

urban-outfitters-corporate-officeCerto in Urban Outfitters avranno pensato di averla fatta franca lo scorso anno quando di fronte alla stessa richiesta (votata dal 28% del capitale sociale) hanno pensato di aprire le porte del board a Margaret Hayne. Peccato che abbiano scelto la moglie del fondatore nonché ceo dell’azienda, Richard Hayne. Nessuno mette in dubbio le capacità della signora (per altro presidente e direttore creativo della catena Free People), ma certo il dettaglio ha ingenerato qualche ironia e sicuramente a dato il via alla nuova risoluzione votata in assemblea quest’anno. E fra coloro che hanno appoggiato la nuova richiesta ci sono almeno cinque dei più grandi fondi pensione pubblici statunitensi, irritati proprio da quello che il tesoriere dello stato del Connecticut Denise Nappier ha definito una risposta “falsa” da parte della società alla risoluzione dello scorso anno.

Secca la critica di Anne Simpson, senior portfolio manager del fondo Calpers (dei dipendenti pubblici della California) che ha bollato il comportamento della società come “fuori moda” sottolineando che “non può andare a pescare i consiglieri arrivando solo alla fine del molo”. Intendendo che c’è un mare immenso in cui andare a pescare professionalità e esperienze diverse.

Su 7 membri, quindi, il board ha solo una rappresentanza femminile e solo un consigliere sotto i 60 anni. Diciamo non proprio una scelta azzeccata per una catena d’abbigliamento che intende rivolgersi ai giovani con articoli in stile hip, funky, metropolitano e non convenzionale.

Per la cronaca, anche in Italia ci sono società private (non quotate) o quotate sul listino Aim, che quindi non hanno l’obbligo per legge di riservare una quota al genere meno rappresentato, che anche quest’anno hanno rinnovato board tutti al maschile. Facciamo qualche nome? Hi Real, nel cui cda siedono Giovanni Tricomi, Corrado Coen, Andrea Rozzi, Angelo Cardarelli, Pier Carlo Scajola, Silvio Laganà e Carlo Fabris. Aspettiamo le vostre segnalazioni. Non potremo esercitare una moral suasion, ma almeno rendere noti i singoli casi.