All’esame di maturità ho preso dall’otto al nove nel compito di matematica. Avevo risolto uno dei tre esercizi in modo empirico (era il calcolo del volume di una figura derivante dalla rotazione di un cono o qualcosa di simile) e la commissione aveva molto apprezzato che avessi ricavato le formule (in realtà è che proprio non mi venivano in mente e ho pensato di ricavarle dal modello disegnato). Una carriera, quella scientifica, finita lì visto che dopo mi sono iscritta, con poco entusiasmo dei miei, a Lettere. E non sono un caso isolato se l’equilibrio di genere, che costituisce la norma nelle scuole secondarie, si trasforma poi in un esile 32% di presenze femminili tra le lauree scientifiche. E più si salgono i gradini della carriera scientifica, più questa percentuale si assottiglia: meno di un ricercatore su 3 è donna (29%) e un dottorando su 4. Percentuali che scendono a quota 11% quando si approda alle più alte cariche accademiche in ambito scientifico, per arrivare alla disfatta totale dei Nobel: meno del 3% dei premi assegnati nelle discipline scientifiche è stato conferito a donne. “Solo 16 su 500”, spiega Giovanni Puglisi, presidente della Commissione nazionale per l’Unesco, ricordando anche che “nessuna Medaglia Fields è mai stata assegnata a una matematica“.
Ma perché ce ne facciamo tanto un problema? Forse perché negli istituti secondari, dove la scelta delle materie di studio è minima o nulla, le ragazze ottengono nelle materie scientifiche risultati pari a quelli dei ragazzi, secondo quanto emerge dall’indagine ‘Pisa1′ dell’Ocse. Ma poi una ragazza che frequenta un istituto superiore ha 3 volte meno probabilita’ rispetto a un compagno maschio di ottenere un dottorato di ricerca in ambito scientifico.
Già a livello di scelte per il futuro sembrano pesare gli stereotipi: “Non solamente le ragazze, ma anche i genitori, gli insegnanti e la società nel suo complesso, nutrono preconcetti fuorvianti che scoraggiano le giovani dallo studio della scienza” si legge nell’analisi della ricerca presentata oggi in occasione dell’evento “L’Oreal Italia Per le donne e la scienza” (istituito in collaborazione con la Commissione nazionale italiana per l’Unesco).
Il quadro che emerge dai dati raccolti nel 2013 in sette Paesi – Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Cina – mostra che la ‘maledizione dell’imbuto’, che perseguita le donne con il camice e ne restringe i numeri man mano che ci si avvicina ai vertici, colpisce ancora. E poco cambia se la quota delle ricercatrici a livello mondiale è cresciuta del 12% nello scorso decennio, secondo l’Istituto di statistica dell’Unesco (che ha sondato la situazione in 129 Paesi, escluso Brasile, Cina e India). La proporzione delle donne a capo di istituti scientifici oscilla fortemente da un Paese all’altro: sono il 6% in Giappone, il 34% in Spagna, il 27% negli Usa, il 29% in Francia (dati Boston Consulting Group). Comunque pochissime rispetto ai colleghi uomini che salgono nell’Olimpo della scienza.
Il problema resta aperto, ma se come ha spiegato Roberta Marracino di Mc Kinsey la colpa è anche delle mamme che fanno differenze nei giochi da piccoli fra figli e figlie, nel dubbio ho iniziato a giocare con l’abaco con mia figlia e le ho già regalato il primo microscopio. Non sia mai che abbia qualche via preclusa!