Storicamente l’età pensionabile delle donne è sempre stata cinque anni in meno rispetto a quella degli uomini, pur avendo le prime un’aspettativa di vita più lunga di quella dei secondi. Un contro senso, quindi, a meno che no si presuma che le donne cedano prima dal punto di vista fisico. Qualche anno fa, chiacchierando del tema, qualcuno mi disse che l’età pensionabile era stata pensata in questo modo perché in media nei matrimoni la moglie è di qualche anno più giovane: con uno scarto di 5 anni dell’età pensionabile i coniugi si sarebbero ritirati insieme e la donna si sarebbe potuta prendere cura dell’uomo (fargli da mangiare, tenere a posto casa, etc). Al diavolo il fatto che questo costava alle donne cinque anni di contributi in meno (assumendo che i due generi inizino più o meno alla stessa età a lavorare) e quindi una pensione più bassa: tanto avrebbe provveduto il marito. La riforma Sacconi portò all’innalzamento dell’età pensionabile per le donne e qualcuno gridò allo scandalo, ma in realtà si traduce in maggior contributi e nel fatto che gli uomini imparano a gestirsi da soli una volta che rimangono a casa.
Problema risolto quindi? Affatto, resta un’altra stortura da sanare affinché le donne in Italia abbiano una pensione in linea con quelle maschili. Si tratta del gap salariale che si riflette anche nei dati diffusi oggi dall’Istat.
Nel 2013 sono state erogate 23,3 milioni di pensioni: il 56,3% ha come beneficiario una donna e il 43,7% un uomo. Le donne rappresentano più della metà (il 52,9%) dei pensionati (8,7 su 16,4 milioni), ma percepiscono solo il 44,2% dei 273 miliardi di euro complessivamente erogati. Oltre la metà delle donne (50,5%), poi, riceve meno di mille euro al mese, contro un terzo (31%) degli uomini. Ma il numero di uomini (178 mila) con un reddito pensionistico mensile pari o superiore a 5.000 euro è cinque volte quello delle donne (35 mila).
L’importo medio annuo delle pensioni erogate agli uomini è di 14.911 euro, un valore del 62,2% superiore a quello delle pensioni con titolarità femminile (9.195 euro). Tuttavia, poiché le donne percepiscono in media un numero di trattamenti pro capite superiore agli uomini (1,51 contro 1,32), il divario di genere si riduce al 41,4% se calcolato sul reddito pensionistico (19.686 euro per gli uomini contro 13.921 per le donne).
Il rapporto tra il numero di pensionati residenti e la popolazione occupata – rapporto di dipendenza – è a svantaggio delle donne: 91 pensionate ogni 100 lavoratrici, a fronte di 58,2 uomini ogni 100 lavoratori. In Calabria si registra il valore complessivo più alto (97,8), il minimo in Trentino Alto Adige (56,4). D’altra parte se l’occupazione femminile è di quasi 18 punti percentuali inferiore a quella degli uomini in Italia. Per non parlare dei livelli che si raggiungono nelle regioni del Sud.
Si torna, quindi, al via: il problema è la creazione di posti di lavoro e un equo trattamento a livello retributivo. Poi lavoreremo anche noi fino a 65 anni, questo non ci spaventa!
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