Che la maternità sia uno scoglio da superare, nella carriera di una donna, è cosa nota e ce lo hanno raccontato i numeri negli anni. Le avvocate, per esempio: tanto studio all’università, tanto studio per l’esame di stato, tanta gavetta negli studi e poi al primo figlio una su quattro abbandona la professione. Il punto è proprio questo: il verbo “abbandonare”. Certo non è bello ma in qualche modo dà l’idea di una scelta. Se ad abbandonare si sostituisce il verbo licenziare, l’idea di scelta scompare. Certo, mi direte, se una abbandonava era anche perché era un po’ costretta dalle circostanze: costi di babysitter o nido troppo alti, problemi di conciliazione degli orari, distanza del posto di lavoro. Però se si riusciva insieme alla famiglia a trovare una soluzione, il posto di lavoro veniva mantenuto. Ora, dai dati Istat, emerge che le donne non hanno più scelta.
Abbandonare il lavoro è sempre meno una scelta personale, ci racconta l’Istat. Sono auntate, infatti, le donne licenziate, passando dal 16% del 2005 al 27,2% del 2012. Un dato portato dal rappresentante dell’Istat nell’audizione in Commissione Lavoro del Senato sul Jobs act. Negli ultimi anni, sottolineano i tecnici, “aumentano le occupate che in corrispondenza di una gravidanza hanno lasciato o perso il proprio lavoro passando dal 18,4% del 2005 al 22,3% del 2012”.
La perdita dell’occupazione per la nascita di un figlio è più marcata nelle aree del Mezzogiorno (29,8% nel 2012), dove i livelli occupazionali sono già molto bassi, per le giovani (46,5% con meno di 24 anni e 32% tra 25-29 anni), con basso livello di istruzione (30,8%), che lavorano alle dipendenze nel settore privato (24,6%), le straniere (36,6%), racconta l’Istat.
Per le neomadri che continuano a lavorare, spiegano inoltre i tecnici, aumentano le difficoltà di conciliazione dei tempi vita-lavoro (dal 38,6% del 2005 al 42,7% del 2012) e «le ragioni principali sono l’orario di lavoro troppo lungo, la presenza di turni o orari disagiati e la rigidità dell’orario».
Come se non bastasse, in casa la situazione non migliora: il numero di ore di lavoro familiare delle donne lavoratrici in coppia con figli fino a 7 anni è pari a 5 ore e 37 minuti al giorno, che scendono a 4 ore e 43 minuti se i figli hanno tra gli 8 e i 12 anni.
«Le famiglie monogenitore – dicono i tecnici dell’Istat – sono un pò meno sovraccariche perchè si avvantaggiano dell’assenza del marito (4 ore e 26 minuti e 4 ore e 24 minuti rispettivamente)». Come a dire che il marito porta lavoro da fare, non ne toglie se vive in famiglia. Questo mi sembra un dato interessante e forse il più urgente su cui intervenire. Non cacciando di casa i mariti, quanto piuttosto cercando di aumentare il grado di collaborazione per i carichi familiari. E su questo il Governo può davvero far poco, è tutto sulle spalle delle donne!
La situazione complessiva della conciliazione dei tempi di vita, dunque, secondo l’Istat «rende opportuni interventi di ampliamento degli strumenti di conciliazione». Naturalmente si liquiderà il tema con il solito dibattito su “asili nido sì, asili nido no”, come se fosse l’unico perno su cui ruota l’organizzazione familiare. E come se i figli restassero sempre sotto i tre anni!
Tornando al tema dei licenziamenti: negli ultimi anni mi è capitato di ascoltare diverse storie. In licenziamenti sono stati giustificati tutti dalla crisi economica, anche quando coincidevano con il compimento dell’anno di età dei figli (prima del quale non è possibile lasciare a casa una madre). Ma qual è la vera ragione perché sono aumentati i licenziamenti delle donne?