E’ un po’ come se offrissero ad Alberto Perino, leader del movimento No Tav, il biglietto del viaggio inaugurale ad alta velocità in mezzo alla Valsusa. Mi ha fatto un po’ questo effetto ieri la nomina di Emma Marcegaglia alla presidenza di Eni. La scelta di Matteo Renzi di inserire 11 donne fra i candidati ai board delle società partecipate dal Ministero del Tesoro non è stata frutto di una volontà di cambiamento “spontanea”. La legge 120 del 2011, la cosiddetta Golfo-Mosca, impone per le società quotate e partecipate pubbliche una quota del 20% al primo rinnovo di membri del cda riservata al genere meno rappresentato. La scelta, invece, di nominare tre donne alla presidenza, quella sì che è tutta renziana. Di fatto, però, la spinta verso la presidenza è data certamente dalla legge sulle quote. E Emma Marcegaglia, da sempre contro le quote di genere, diventa di fatto la testimonial principale del cambiamento epocale cui ha portato la normativa italiana in tema di governance.
La vita, d’altra parte, fa certi scherzi. L’imprenditrice, ex presidente di Confindustria, arriva così ad essere il numero uno del più grande gruppo industriale italiano per fatturato (115,1 miliardi di euro nel 2013 con un utile netto di 5,2 miliardi di euro) proprio sulla spinta di quella legge su cui sii espresse in modo molto netto. «Auspico con fervore un maggior ruolo delle donne nel mercato del lavoro, ma imporre leggi dall’alto che rischiano di fuorviare il dibattito non piace. Chiedere che il 30% dei consiglieri di amministrazione sia formato da donne come impone la legge che verrà dall’Europa è fuorviante: alla fine avrai tua sorella, tua figlia, un padre con cognome diverso in consiglio e dunque non facciamo le cose per finta, facciamo invece qualcosa che porti davvero le donne a un ruolo più importante» dichiarò l’8 dicembre 2010 in viaggio a Washington in pieno dibattito parlamentare sull’approvazione della legge. E fu sempre lei a firmare come presidente di Confindustria una lettera con Abi e Ania diretta al governo per chiedere maggiore gradualità nell’applicazione delle quote e la rimozione della sanzione. Salvo, poi, una volta ammorbidita appena in parte la norma e approvata in via definitiva dal Parlamento, salutarla come legge “positiva”.
Tornando, più in generale, alla nomina delle tre presidenti naturalmente non sono sfuggiti ai commentatori un paio di dettagli: in primo luogo le cariche sono di rappresentanza e non con deleghe esecutive, in secondo si tratta di cariche a cui è stato messo un tetto allo stipendio a 238mila euro (cosa che non avviene per gli amministratori delegati). D’altra parte si sa, le donne non trattano generalmente sullo stipendio e forse avrebbero più facilmente accettato un ruolo non di gestione e “sottopagato”.
Certo le critiche ci stanno tutte. Il cambiamento poteva essere molto più radicale e la svolta vera sarebbe stata chiamare una manager di standing internazionale alla carica di amministratore delegato. Sarebbe bastato un nome al posto di tre per creare il vero cambiamento, ma come ha scritto oggi Carlo Marroni sul nostro giornale oggi sulle liste per i cda sembra rispuntato il manuale Cencelli (come fu nel caso delle nomine dei sottosegretari).
Ma guardiamo al lato positivo. Certi tabù stanno iniziando a cadere. In certe stanze inizieranno a entrare donne capaci e di esperienza che sapranno dimostrare (nel caso ce ne fosse bisogno), che non si tratta di nomine di pura apparenza. E, comunque, anche l’apparenza fa la sua parte nella costruzione di role model per le future generazioni. Qualche anno fa in un sondaggio fra gli studenti di economia si chiese di indicare tre manager o imprenditori a cui si ispiravano. Le studentesse indicarono ai primi due posti due uomini. Forse ora per loro sarà più facile individuare modelli femminili. E magari ci sarà chi dirà “da grande vorrei essere come Marcegaglia”.
Un solo auspicio: che dopo la nomina le tre presidenti e le consigliere che entreranno nei board perdano un paio di minuti per fare una telefonata a Lella Golfo (ex Pdl) e Alessia Mosca (Pd) che hanno lottato per anni come leonesse per far approvare la legge. Non servono molte parole.